Gregory Crewdson: fotografie cinematografiche

Gregory Crewdson, nato a New York nel 1962, ha sviluppato uno stile fotografico unico: allestisce set cinematografici per realizzare una singola immagine finale.

I palcoscenici delle sue rappresentazioni sono gli anonimi sobborghi americani: le strade, i luoghi abbandonati o gli interni delle abitazioni, dove vanno letteralmente in scena i drammi quotidiani degli abitanti.

© Gregory Crewdson
© Gregory Crewdson

Quando osserviamo le sue opere siamo davanti ad attimi sospesi, messi in scena con la massima attenzione e illuminati da potenti luci cinematografiche. La cura dei dettagli è minuziosa e maniacale: occorrono mesi di preparazione per realizzare un solo fotogramma, per congelare un unico istante perfetto.

Formazione: tra realtà e finzione

Le prime immagini di Crewdson non venivano realizzate mettendo in moto l’enorme macchina produttiva che caratterizza i lavori successivi: il suo stile e il suo modo di fotografare si sono evoluti nel tempo, ma l’interesse per la messa in scena era evidente anche nei suoi primi scatti.

Per la sua formazione artistica sono stati importanti sia i corsi di Yale (dove, in ambito fotografico, il filone predominante era il realismo documentaristico di cui Walker Evans è stato uno dei più noti esponenti), sia la frequentazione delle gallerie newyorkesi (dove ebbe modo di vedere le opere di Cindy Sherman e Laurie Simmons, alcune delle più importanti esponenti della staged photography). Le immagini della Sherman e della Simmons gli fecero comprendere che esisteva anche un approccio alla fotografia opposto a quello che andava per la maggiore a Yale: la fotografia come messa in scena, finzione e costruzione.

© Cindy Sherman
© Cindy Sherman

Sebbene le foto di Crewdson siano delle fotografie costruite, penso che in esse si possa ritrovare una sintesi tra approccio documentaristico e messa in scena.

Lo stesso fotografo parla delle sue immagini come di rappresentazioni che ha nella testa ma che nascono da esperienze e luoghi familiari, con un ancoraggio solido al reale. Una parte fondamentale del suo lavoro è infatti il location scouting: percorre più e più volte luoghi che già conosce alla ricerca di qualcosa di misterioso, qualcosa di inaspettato che rompa la normalità. Una volta trovato il posto giusto dove allestire il set, usa le luci e il colore per caricare l’atmosfera della scena e renderla ancora più straordinaria.

© Gregory Crewdson
© Gregory Crewdson

Guardando le sue opere si percepisce immediatamente quanto sia importante l’influenza del cinema, in particolare di David Lynch. Lo stesso Crewdson racconta di come Velluto blu abbia rivoluzionato il suo approccio all’uso della luce e soprattutto del colore.

David Lynch Velluto blu (1986)
David Lynch Velluto blu (1986)

L’incontro con il direttore della fotografia Richard Sands, proprio quando decise di introdurre in modo significativo l’uso dell’illuminazione artificiale, ha contribuito a portare i suoi lavori a un nuovo livello.

L’uso delle luci artificiali (per lo più illuminatori per uso cinematografico di grandi dimensioni) condiziona anche la scelta del momento in cui scattare. La luce del crepuscolo permette di integrarle al meglio e nel modo più efficiente nella scena.

© Gregory Crewdson
© Gregory Crewdson

Ambientazioni

Fatta eccezione per il progetto più recente, Cathedral of the Pines, le immagini scattate durante la sua carriera hanno come ambientazioni interni oppure strade di anonimi sobborghi americani. La scelta di luoghi non identificabili (potrebbero trovarsi ovunque ma allo stesso tempo non corrispondere a nessun luogo reale) è una componente fondamentale nella creazione di quel perfetto momento sospeso che poi viene immortalato.

Lo stesso crepuscolo non soddisfa solo un’esigenza pratica ed estetica, ma si carica di una valenza psicologica. Il crepuscolo è un momento di sospensione, di transizione dal giorno alla notte, di passaggio dalla sfera pubblica a quella privata (quando torniamo a casa). È il momento in cui cambia il luogo dove vanno in scena i drammi quotidiani che, nei suoi scatti, coinvolgono per lo più persone disagiate o in difficoltà.

Il tempo delle fotografie

Per Crewdson esiste solo il momento dello scatto, non ci sono né un prima e né un dopo o, comunque, non lo riguardano. Per lui conta solo quell’unico momento congelato a cui dedica la massima cura e attenzione. Ed è proprio in questo aspetto che emerge la differenza fra un suo scatto e un film: se l’uso del colore, la costruzione di un set, le maestranze che vi lavorano, gli attori, la messa in scena sono cinematografici, a differenza di un film non abbiamo una sequenza di fotogrammi che si susseguono nel tempo ma un solo perfetto istante.

Crewdson dice di sentirsi privilegiato perché in questo modo non deve preoccuparsi della trama, del suo sviluppo, della coerenza della linea narrativa, ma solo di quell’unico momento a cui dedica tutto sé stesso.

In fase di progettazione, prepara (insieme al suo staff) i bozzetti della scena, una breve descrizione della situazione rappresentata e una minuziosissima descrizione dei dettagli della scenografia.

Bozzetto
Bozzetto

Tutti gli elementi presenti nella scena serviranno poi a chi guarderà la foto per completare la narrazione: non solo per interrogarsi su cosa sta accadendo, ma anche per immaginare cosa è accaduto prima e come proseguirà dopo.

La fase di preparazione

La fase di progettazione di un singolo scatto dura settimane, la preparazione del set normalmente un paio di giorni durante i quali il fotografo sente una fortissima pressione. Le cose che possono andare storte quando vengono coinvolte decine di persone in uno spazio solo momentaneamente chiuso al pubblico, sono innumerevoli. A volte le strade cittadine vengono chiuse, parte della segnaletica rimossa, vengono fatti interventi sull’illuminazione pubblica e sui semafori, servono carri gru per sollevare e tenere in posizione grandi illuminatori, vengono utilizzate macchine per la pioggia, per la neve o per la nebbia. In alcuni casi è necessario l’allagamento di strade per ottenere riflessi sull’asfalto… insomma, non è proprio uno scherzo.

Gregory Crewdson accanto alla fotocamera
Gregory Crewdson accanto alla fotocamera

Senza contare il denaro che ogni volta è in gioco visto che a tutti gli effetti è come mettere in moto una piccola produzione cinematografica.

Settimane di preparativi si concentrano in una finestra temporale di pochi minuti in cui realizzare lo scatto perfetto, dopo di che tutto verrà ripristinato per il ritorno alla normalità.

Nonostante la tensione, è nei pochi instanti durante i quali lo scatto viene realizzato che Crewdson sente che la sua vita ha un senso. Durante quei momenti il fotografo non si posiziona dietro il banco ottico, non scatta nemmeno la foto in prima persona, ma tiene d’occhio la scena, controlla, dirige gli attori, verifica che tutto sia perfetto come lo ha immaginato.

Uno stile narrativo

Quello sviluppato da Crewdson è uno stile narrativo, documentaristico e cinematografico. Crea qualcosa di straordinario in luoghi e scenari che per lui sono ordinari e familiari: partendo dalla sua esperienza personale racconta delle storie, trasferisce nelle immagini le proprie ansie, ritrae persone reali in un frangente delle loro vite problematiche vissute nell’anonima periferia americana. La maggior parte delle immagini è caratterizzata dal mistero e dalla solitudine.

© Gregory Crewdson
© Gregory Crewdson

Lo scatto avviene con fotocamere di grande formato. Solitamente scatta trenta o quaranta lastre della stessa scena. La fase successiva comprende l’unione di più scatti e la postproduzione. Le fotografie di Crewdson uniscono fotografia e cinema, quotidiano e teatralità.

Conclusioni

Mettere in moto una produzione cinematografica simile a quella necessaria per un film indipendente per realizzare una sola foto è difficile da immaginare. Se a questo aggiungiamo la cura di tutte le fasi del lavoro e l’eccellenza del livello raggiunto si capisce perché Gregory Crewdson sia noto nel panorama mondiale.

Non posso fare a meno di pensare alla voglia e all’impegno necessari per imbarcarsi ogni volta nella realizzazione di uno scatto di questo tipo. Terminata la fase di scatto inizia poi l’attesa per capire se i risultati saranno all’altezza delle aspettative: gli scatti su lastra non permettono la verifica immediata come quelli in digitale.

Le opere di Crewdson mettono in scena uno spaccato di realtà permeata dall’angoscia del quotidiano e da una tensione onnipresente. L’uso cinematografico della luce, del colore, della nebbia suggeriscono la presenza di qualcosa di invisibile, probabilmente oscuro.

Le pose delle persone, gli oggetti nelle stanze e la loro disposizione, le porte aperte che lasciano intravedere dettagli in altre stanze, l’uso degli specchi per aumentare la complessità della scena sono tutti elementi che mettono in moto l’immaginazione di chi osserva. Obbligano lo spettatore a porsi delle domande a cui però non è possibile trovare risposte certe. Questo gioco di rimandi, di indizi che generano dubbi su dubbi, non fa che alimentare il senso di spaesamento che si prova guardandole. L’angoscia che filtra da alcune delle opere però non è quel sentimento prepotente che percepisco nei dipinti di Francis Bacon, ma qualcosa di più sottile.

© Gregory Crewdson
© Gregory Crewdson

Per me le sue fotografie possono essere considerate un ipotetico punto d’incontro fra i quadri di Edward Hopper e i film di David Lynch senza la colonna sonora di Angelo Badalamenti.

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