Vivian Maier, una storia (fotografica) straordinaria

“Chi è Vivian Maier?”

Rispondere a questa domanda non è facile, anche perché la stessa Vivian Maier ha fatto di tutto perché la sua identità e la sua biografia restassero un mistero. Con estrema sintesi potremmo dire che dalla metà degli anni ’50 ha vissuto principalmente a Chicago, ha scattato migliaia di interessantissime fotografie mai mostrate a nessuno, si guadagnava da vivere come tata. E, come spesso accade, è diventata famosa dopo la morte. Terminata la versione Bignami partiamo dal principio.

Vivian Maier, “la bambinaia fotografa” (epiteto che non apprezzo particolarmente), ha fatto la sua comparsa mediatica in modo dirompente e sensazionale, o meglio, sensazionalistico. Dal 2011 iniziano a comparire, sempre con maggiore frequenza, articoli che parlano di lei e di John Maloof, in precedenza due perfetti sconosciuti.

Come tutto ebbe inizio

Tutto cominciò da un’asta giudiziaria nel 2007, con l’acquisto fortuito di alcuni rullini fotografici da parte di John Maloof, un tale che si autoproclamerà poi curatore ufficiale (nonché proprietario) dell’opera della Maier.

Un ritrovamento eccezionale

Il ritrovamento di materiale inedito prodotto da fotografi noti è un evento raro ma non unico. È successo per Robert Capa così come per Ansel Adams. Il caso di Vivian Maier ha però due fattori di straordinarietà: non si tratta di una nota fotografa di professione e il materiale ritrovato nel corso delle successive ricerche è superiore ai 100.000 negativi (si parla di 150.000). Tale quantità, da sola, non sarebbe comunque bastata a innescare il “caso Vivian Maier” se non fosse stato che le immagini sono anche di qualità.

Maloof iniziò a scansionare e pubblicare sul web alcune di queste immagini, ambientate principalmente a Chicago dalla seconda metà degli anni ’50. Più esse suscitavano l’entusiasmo del pubblico della rete più l’“ossessione” di Maloof per le foto (ma anche per gli effetti personali e la vita) della Maier cresceva.

Un documentario per conoscere Vivian Maier

Nell’articolo non entrerò nel dettaglio della storia di Maloof né della Maier, preferisco piuttosto fornire alcune notizie generali e spostare la riflessione su un aspetto più specifico inerente il modo in cui è stato trattato il suo “lavoro”. Per un racconto dettagliato della sua biografia e della sua “scoperta” rimando al documentario Alla ricerca di Vivian Maier. Si tratta di un racconto (di parte), realizzato dallo stesso Maloof e da Charlie Siskel, che ripercorre l’intera vicenda. È un prodotto che merita di essere visionato per farsi un’idea dello straordinario ritrovamento. Inoltre, la formula dvd+libro offre come valore aggiunto alcuni scritti: il primo dei quali, Conversazione con Denis Curti, è di particolare interesse.

Qualche nota biografica

Miss Maier, nata a New York nel 1926 e morta a Chicago nel 2009, era figlia di emigranti. Da quel che sappiamo conduceva una vita riservata e solitaria, non abbiamo notizie di amici o affetti e, più in generale, tutto ciò che la riguarda è un mistero. Ha lavorato per la maggior parte della sua vita a Chicago, come tata. Tale lavoro le permetteva di avere una certa libertà di movimento, di alloggiare in una stanza privata in casa delle famiglie benestanti presso cui prestava servizio e di godere di una disponibilità economica che le permetteva di comprare le pellicole fotografiche.

Fotocamera biottica Rolleiflex. Image credit: Stefano Tambalo (https://www.flickr.com/photos/mrgilles/2714575284/)
Fotocamera biottica Rolleiflex. Image credit: Stefano TambaloCC BY 2.0

Fotografa in pectore

Le immagini ritrovate testimoniano le capacità della Maier e la sua spiccata attitudine per il mezzo fotografico. Se tralasciamo le illazioni e i racconti sulla sua persona e ci concentriamo sulla selezione dei lavori che i “curatori” hanno scelto di mostrarci, vediamo una fotografa capace, attenta all’inquadratura e alla scena. Visionando i provini a contatto resi disponibili online, sono rimasto colpito dalla percentuale di foto correttamente realizzate. Ciò è ancora più impressionante se consideriamo che, non sviluppando molti dei rullini che scattava, veniva meno la fase di verifica delle immagini.

Dove visionare alcune fotografie

Una selezione di fotografie della Maier si può visionare sul sito ufficiale creato da John Maloof: sono scatti in bianco e nero, a colori, provini a contatto, autoritratti.

Chi, come me, ama i libri fotografici può acquistare Vivian Maier Fotografa. L’edizione italiana è pubblicata da Contrasto e se siete intenzionati all’acquisto scegliete questa perché, a differenza di quanto leggo nei commenti alle edizioni straniere, ha una bella stampa. Il volume contiene scatti in bianco e nero realizzati in contesti urbani, per lo più ritratti eseguiti in strada, e una piccola appendice di autoritratti.

Perché Vivian Maier scattava fotografie?

Alcune foto hanno una composizione e pose così ricercate da sembrare costruite. Ciò viene confermato, nel documentario Alla ricerca di Vivian Maier, dalla testimonianza di uno dei bambini che ebbe Vivian come tata. Questo aspetto aggiunge informazioni importanti al quadro di Vivian Maier fotografa: la ricerca, l’intento compositivo, forse anche una mania di controllo volta a realizzare la composizione che aveva in mente. Considerando questi aspetti, unitamente al fatto che la Maier non dovrebbe aver ricevuto una particolare formazione tecnica o artistica, trovo il suo operato di fotografa ancora più straordinario e credo sia impreciso etichettare il suo lavoro sotto il genere street photography.

Il grande interrogativo che non verrà mai sciolto riguarda il significato che avevano per lei questi scatti. Una pratica terapeutica? Una necessità irrefrenabile dovuta a tratti compulsivi del suo carattere?

Vivian era consapevole delle sue capacità e dell’intento con cui fotografava. Ma allora perché lasciare tutto in degli scatoloni senza nemmeno sviluppare molte pellicole? Viene anche da pensare che il fulcro del suo interesse fosse l’atto fotografico e non il risultato.

Questioni etiche e morali

A questo punto rimangono da affrontare le questioni più controverse e critiche della vicenda. Se da una parte sono stato egoisticamente contento che le immagini della Maier siano stato portate alla luce, dall’altra non posso che pensare alla loro pubblicazione come a una violenza, anche se magari fatta in buona fede.

Miss Maier aveva sempre mantenuto la massima riservatezza sulla sua attività di fotografa, fatta eccezione per un improvvisato tentativo di pubblicazione di cartoline non andato in porto. Tutti sapevano che fotografava ma a nessuno venivano mostrati i risultati dei suoi scatti, anche perché spesso rimanevano come immagini latenti su una pellicola. Non trovo credibile fino in fondo che non sviluppasse i negativi per problemi economici quando nel bagno aveva allestito una camera oscura… Comunque, quale che fosse il motivo, ciò che è certo è che non le è stata data possibilità di decidere se mostrare i suoi scatti o meno.

Visto quanto era riservata in vita, rendere pubblici i suoi scatti è stato davvero il modo più corretto di renderle omaggio? E ammesso di volerle usare questa violenza in nome di un bene superiore, ovvero mostrare il suo operato per arricchire l’umanità, l’operazione poteva forse essere gestita in modo più trasparente.

I “curatori”

Qui si apre la questione dei curatori. Essere curatore di un artista è differente dall’essere il detentore dei diritti e il proprietario degli originali delle sue opere. Un vero curatore ha una formazione specifica, non si diventa curatori de facto.

L’artista ha alcuni diritti inalienabili sulle sue opere: decidere quali pubblicare, come farlo e come trattarle. Vivian Maier non ha potuto decidere nulla riguardo alle sue foto: né cosa pubblicare, né in che formato od organizzazione, nemmeno su quale carta o con quale contrasto stamparle. Sul sito ufficiale si legge che da quando il Chicago Cultural Center ha iniziato a occuparsi delle opere, tutti gli interventi sono stati fatti nel rispetto di indicazioni mutuate da appunti lasciati dalla Maier relativi ad altri lavori. Certo, sempre sul sito della Maier leggo che Maloof,  dopo i ritrovamenti, è diventato dal nulla, oltre che “curatore”, anche fotografo e filmmaker…

Forse sto ingigantendo la cosa, ma mi piacerebbe riportare un po’ di equilibrio visto che la straordinarietà della storia della Maier ha relegato gli aspetti più controversi in secondo piano. Amando la fotografia e occupandomene sotto vari aspetti trovo doveroso sottolineare criticamente certe problematiche, altrimenti questo scritto non aggiungerebbe alcun valore a ciò che è già stato detto.

Il modo in cui il mondo ha osservato i primi scatti della Maier è stato un enorme arbitrio. Il suo “curatore”, ancora inconsapevole dell’enorme tesoro che aveva tra le mani, iniziò a pubblicare in rete alcune immagini dopo averle digitalizzate con uno scanner Epson V700. Coloro che hanno familiarità con questo procedimento conoscono le numerose variabili introdotte dal processo di acquisizione nel trasformare la pellicola in un’immagine digitale finita. E la stessa cosa è accaduta per le stampe realizzate con procedimento chimico, esposte e vendute. In questo caso chi ha deciso il contrasto, la carta, l’ingrandimento, se ritagliare o meno un’immagine?

Come ho detto, egoisticamente sono contento che il lavoro di Vivian Maier sia venuto alla luce perché lo trovo un contributo di valore, un tassello importante nella storia della fotografia e un documento importante per la storia in generale. Dall’altra parte provo una certa amarezza, tanto per la violenza in sé ma ancora di più per il modo in cui è stata perpetrata. Un conto è voler far conoscere e promuovere il lavoro di un artista, un altro mascherare un’operazione commerciale da atto d’amore per farne riconoscere il valore al mondo istituzionale.

La posizione dei musei e delle istituzioni

Trovo normale che i musei e le istituzioni abbiano avuto difficoltà a prendere posizione nei confronti di questa storia, i cui ingredienti sono un’artista scomparsa con una biografia assente e un curatore con possibili mire speculative.

Non vedo quindi il loro atteggiamento come direttamente “ostile” nei confronti di Vivian Maier (cosa che viene invece avvallata nel documentario di Maloof e Siskel), ma cauta nei confronti della vicenda tout court. Vicenda veramente sui generis che ha coinvolto persone che, pur se mosse dalle migliori intenzioni, hanno agito con leggerezza e carente deontologia professionale (anche se non si parla di professionisti). Non dimentichiamo poi che quello speculativo è un aspetto sempre difficile da sottovalutare.

John Maloof

Per concludere vorrei spendere qualche parola per chiarire esplicitamente che idea mi sono fatto di Maloof, in modo che le osservazioni nel testo non diano adito a fraintendimenti.

Dal documentario (Alla ricerca di Vivian Maier. La tata con la Rolleiflex) e da ciò che ho appreso sulla vicenda, la mia idea di Maloof condivide molti tratti con il personaggio delineato da Roberto Goisis. Vedo in John Maloof e Vivian Maier due figure per più aspetti affini. Due persone con tratti compulsivi che si espletano anche nell’accumulo/collezione di oggetti. Due persone alla ricerca della propria identità e soprattutto della propria strada.

L’“ossessione” di Maloof per la Maier fa pensare che il percorso di ricerca sulle tracce di Vivian sia anche un percorso di ricerca personale della propria posizione nel mondo. Allo stesso tempo però non voglio che l’“entusiasmo” e la “buona fede” mostrati e dichiarati da Maloof diventino delle scusanti per aver affrontato questo percorso in modo dilettantesco, auto-definendosi curatore senza nemmeno chiedersi se fosse in grado di fare il curatore o quali fossero i compiti, i doveri e la formazione che dovrebbe avere un curatore. Se da una parte vediamo il Maloof “scolaretto entusiasta”, dall’altra ci dovrebbe essere il Maloof adulto a controbilanciare l’ingenuo disincanto. E, scrivendo ciò, intendo dare al proprietario del corpus delle opere della Maier il più grande beneficio del dubbio, almeno nella fase iniziale, sul fatto che i suoi intenti fossero sinceri.

Quando per far accettare Vivian Maier alle istituzioni ufficiali del mondo dell’arte Maloof ne vende i lavori entra in gioco l’operazione commerciale. Sotto il profilo “imprenditoriale” non gliene faccio una colpa, ma qualche problema etico e morale si solleva. Insomma, “from great power comes great responsibility” ;-).

Per concludere

È passato del tempo da quando ho iniziato a scrivere questo articolo, l’ho modificato più volte e, se continuassi a lavorarci, muterebbe ancora nella forma (ma non nella sostanza). Il motivo principale è che si tratta di una questione davvero controversa e difficile da affrontare anche perché, avendo solo informazioni parziali, il terreno di gioco è quello delle supposizioni e delle illazioni.

La domanda che mi ha seguito (dire perseguitato mi sembra eccessivo) per le varie stesure è stata: “Ma se avessi scoperto io l’eredità di Vivian Maier come mi sarei comportato?”. Diciamo che questa è stata la mia àncora per evitare di andare alla deriva nel mare dei sospetti e cercare di osservare la vicenda in modo realistico e non solo attraverso le lenti dell’etica e della morale.

A differenza di molti commentatori non vedo in Maloof il cavaliere senza macchia ma un businessman che ha giocato fin troppo bene le sue carte. Miss Maier ormai non può dire nulla e frasi come “Vivian sarebbe fiera di sapere che il suo lavoro è stato pubblicato” lasciano il tempo che trovano. Ciò che conta, per noi, è che possiamo godere del suo lavoro. Il mio augurio, a questo punto, è che venga posto rimedio alla scarsa trasparenza che ha permeato l’intera vicenda e che – prima o poi – l’intero lavoro della Maier venga seriamente sistematizzato e diventi interamente consultabile.

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2 risposte

  1. Ho seguito anch’io tutta la storia del ritrovamento delle immagini (la maggior parte delle quali, ancora nei rullini mai sviluppati, né mai fatti sviluppare dalla stessa Vivian Maier), e ho trovato tutta la storia un qualcosa di “terribile”.

    “Terribile”, per più di un motivo:

    Intanto, sono certo del fatto che non bisogna mai (sottolineo MAI) approfittare dei lavoro di altri per arricchimento personale.

    Sono inoltre certo del fatto che la stessa autrice non avrebbe mai voluto che la sua immagine (di donna e di bambinaia) fosse strumentalizzata al punto in cui è apparsa nel docu-film, dove, da quel punto di vista non ne è uscita davvero bene.

    Anche dal punto di vista fotografico, il suo pensiero, il suo modo di vedere la fotografia, le sue motivazioni per fare fotografia ecc. sono state esposte al mondo senza il suo consenso e, dai discorsi, dagli articoli (su giornali, su siti, blog, social ecc) si capisce bene che buona parte del mondo, non l’ha per niente capita.

    Lei è stata una fotografa eccezionale (e un’artista sublime), lo si vede benissimo (più di reportage urbano e di ritrattistica, che di Street come gli viene attribuito, perché la street photography è una cosa ancora diversa), ma la sua fotografia era fatta per lei stessa, non per gli altri (e anche questa è una cosa che si capisce benissimo) e questo doveva essere rispettato…in una parola, la sua fotografia doveva morire con lei (che è morta da barbona, vivendo su una panchina e mangiando scatolette di cibo per gatti), non doveva certo essere esaltata da altri dopo la sua morte e a sua insaputa.

    Infine: su questa frase dell’articolo (cito testualmente):

    “Un conto è voler far conoscere e promuovere il lavoro di un artista, un altro mascherare un’operazione commerciale da atto d’amore per farne riconoscere il valore al mondo istituzionale.”

    …anche in questo caso, non va bene nemmeno la prima parte della frase (un conto è voler fare conoscere e promuovere il lavoro di un artista)… perché questo si può, e si deve fare, solo quando l’artista in questione è ancora vivo e solo se lui (in questo caso, lei) è d’accordo.

    In una parola, tutto quello che è successo e che è stato fatto è “terribile” e profondamente molto molto “sbagliato”.

    Saluti
    Walter

    1. Ciao Walter, ti ringrazio per il tuo pensiero espresso in modo chiaro e motivato.
      La storia della Maier è una ferita aperta. Personalmente ho ceduto all’egoismo e, pur non apprezzando l’operazione e il modo in cui è stata portata avanti, sono andato a vedere mostre in cui erano esposte sue immagini. Sono tuttora combattuto nel capire quale sia il modo di porsi verso la sua opera.
      Come dici tu, probabilmente lei non avrebbe voluto tutto questo e sicuramente non è stato corretto, rispettoso, umano il modo in cui sono state trattate la sua vita e le sue opere.

      Un saluto,
      Marco.

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